2001 Odissea nello spazio: un colonna sonora monumentale

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È l’aprile del 1968 quando “2001: Odissea nello spazio” debutta in un cinema di Washington (bisognerà attendere dicembre per lo sbarco nelle sale italiane), dando origine al proprio culto.

Nelle oltre due ore di film, immagine e musica sono integrati in modo indissolubile: certo, questo avviene in tutte le opere di Stanley Kubrick, che fa proprio della materia sonora una colonna portante della sua estetica, ma in questo caso i risultati espressivi sono fuori del comune.

La genesi della colonna sonora in questione è quanto mai tormentata, basti pensare al rifiuto, da parte del regista, della partitura scritta dal compositore Alex North: in questo senso, Kubrick è un principe, nel senso machiavelliano del termine, concentrato sul destino della propria opera e disposto al sacrificio di chi, con lui e per suo conto, collabora alla costruzione di tale visione.

Dopo varie difficoltà, il risultato è la summa di monoliti musicali del XIX e XX secolo, che deflagra sin dalle prime scene. All’origine del lungometraggio, fa il suo ingresso “Atmosphères” di György Ligeti, sospesa in un’immobilità tonale che, senza dare modo alla coscienza dello spettatore di orientarsi, viene spazzata via da “Also sprach Zarathustra, op. 30” di Richard Strauss: e qui, a una manciata di minuti dall’inizio della pellicola, le speculazioni si sprecano. Ciò che sembra evidente, è tuttavia che l’unione tra gradi tonici e dominanti, alternanza di tonalità tra modi maggiore e minore, l’affacciarsi delle immagini dell’universo e dell’allineamento planetario, tutto insieme concorre a un big bang visivo e sonoro, la creazione di un corpus unico e perfetto.

Questo incipit inoltre, come una vera e propria ouverture operistica, racchiude già in sé il susseguirsi di ordine e caos, progresso e regressione, cromatismi e oscurità, suono deflagrante e puro silenzio che caratterizzano la struttura del film.

Quando poi entra in scena “An der schönen blauen Donau” di Johann Strauss (figlio), non è possibile che concordare con Kubrick stesso, quando definisce questa musica, nell’impianto filmico, una summa di grazia e bellezza, oltre che un qualcosa di mai tanto distante dall’iconografia musicale associata a spazio e fantascienza: uno straniamento sublime, la via diretta ai massimi vertici dell’espressione cinematografica.

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