Un teatro dell’interiorità: conversazione con Ivo Pogorelić

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Ivo Pogorelić, nato in Serbia nel 1958, è uno dei pianisti più enigmatici e visionari della sua generazione. Per lui l’attività pianistica costituisce un autentico scavo dentro di sé, una lotta costante con i propri fantasmi. E l’esibizione in concerto è come un teatro dell’interiorità: un esercizio pubblico di meditazione, nel quale vengono alla luce i momenti più reconditi dell’inconscio e della storia.

Lo si è potuto vedere lo scorso 30 Settembre all’Auditorium Pollini di Padova, nel corso dell’ultimo appuntamento del Festival pianistico Bartolomeo Cristofori. Pochi minuti prima dell’ora d’inizio Pogorelić era ancora intento a provare il pianoforte, anzi ad accarezzarlo ricavandone suoni accennati e irriconoscibili, assorto e inconsapevole della presenza dell’uditorio che aveva già riempito la sala. Quando poi è rientrato per il concerto vero e proprio, è iniziato un viaggio allucinato e intensissimo attraverso tutti i timbri estraibili dal pianoforte, da quelli più aerei ed evanescenti a quelli più violenti e distorti: una sorta di indagine in tempo reale sui limiti dello strumento, che ha toccato il massimo d’incanto nel tempo lento della Sonata n. 2 di Rachmaninoff ma ha percorso, in modi diversi, tutti i brani in programma: l’Adagio in si minore di Mozart, l’Appassionata di Beethoven e Valse triste di Sibelius.

L’incontro con Pogorelić, la mattina dopo il concerto, è occasione per approfondire il lavoro di preparazione che sta dietro a questo modo di suonare, privo di paragoni nel panorama pianistico contemporaneo.

Quale pensiero sta dietro alla varietà timbrica che riesce a creare mentre suona? Vede delle immagini, pensa agli strumenti dell’orchestra o si concentra sul suono puro?

«L’esecuzione in concerto per me è come la punta di un iceberg: la parte sommersa è costituita dal lungo lavoro di ricerca e di indagine svolto in solitudine intorno al brano e alla sua storia. Ciò che sappiamo dell’opera ci può far sentire delle cose e la può far interagire con il nostro vissuto. Faccio un esempio: questa mattina ho visitato la cappella degli Scrovegni. Conoscevo già gli affreschi ma li vedevo per la prima volta dal vero, e sono rimasto colpito dalla lucentezza che hanno mantenuto. C’è un affresco che raffigura un asino. Nella mia infanzia ho visto molti asini maltrattati e sfruttati dagli uomini e da poco ho letto che gli asini sono animali estremamente sensibili, capaci di amore e di cura e propensi a formare delle «famiglie». Per questi motivi l’affresco con l’asino mi ha colpito moltissimo. Funziona così anche con i colori musicali: per vederli, e per presentarli in concerto, occorrono preparazione e lavoro personale».

Quindi lavora molto a lungo sui pezzi che ha in repertorio.

«Sì, è necessario. Prendiamo la Sonata n. 2 di Rachmaninoff. La eseguo da trent’anni, ma in un certo senso rimane sempre un enigma. Innanzitutto è difficilissimo riconoscerne l’estrema modernità e liberarla dall’eccesso di sentimentalizzazione, di romanticizzazione, anche di russificazione che ce l’ha consegnata distorta e travisata. Bisogna riconoscere che è un brano costruito in modo cinematografico, che non lascia tempo alle emozioni di svilupparsi: appena ne emerge una, subito la visuale si sposta su un altro fotogramma. Bisogna analizzarla e comprendere che è tutta basata sugli stessi materiali, che ruota tutta intorno al secondo movimento. E bisogna sentire le influenze jazz: non per niente il pianista preferito di Rachmaninoff era Art Tatum, non si perdeva nessuno dei suoi concerti! Poi arriva il lavoro sullo strumento: aiuta provare gli strumenti d’epoca e riconoscere che erano per certi versi più sottili e facilitavano l’uso di più timbri diversi di quelli di oggi. I pianoforti moderni per paradosso sono più primitivi; si è ottenuto un volume di suono maggiore, ma a scapito della raffinatezza. Bisogna quindi comprendere come sia possibile in alcuni casi utilizzare, in altri aggirare questa caratteristica dei pianoforti di oggi».

Il lungo lavoro di preparazione sui brani ha l’effetto di «fissare» un’esecuzione, o in concerto si lascia lo spazio per variare l’interpretazione a seconda del momento?

«Prendo moltissime decisioni sul momento. Alcune sono di carattere tecnico, dipendono dal pianoforte o dall’acustica della sala. Ma più passa il tempo e più mi concedo di suonare in modi diversi anche a seconda dell’«ispirazione», se vogliamo chiamarla così. È il mio modo di improvvisare. Non dobbiamo dimenticare che un tempo l’improvvisazione era apprezzata anche nella musica colta, ci si aspettava che anche gli interpreti potessero improvvisare. E che di solito la composizione nasce dall’improvvisazione».

Cos’ha in programma per il prossimo futuro? Nuove registrazioni, nuovi brani da mettere in programma?

«Vengo da una settimana passata a Raiding, nel paese natale di Liszt, per registrare la Sonata n. 2 di Rachmaninoff. Per il resto, non mi piace dichiarare in anticipo i miei progetti per il futuro. Sarà forse scaramanzia… Tutto quello che mi sento di dire è che sto preparando dei nuovi pezzi, sempre di Rachmaninoff e di Chopin, da presentare in concerto il prossimo anno».

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