Concorso Busoni, Klangspuren, Transart, Bolzano Festival Bozen, Manifesta, il percorso di Peter Paul Kainrath è quello di un organizzatore instancabile e di un direttore artistico di ampie vedute, proiettato sul campo internazionale. In aggiunta a tutto ciò, è arrivata la recente nomina come quarto sovrintendente del celebre Klangforum Wien, uno dei più importanti ensemble al mondo dedicati alla musica contemporanea, a partire dal 2020. Per riflettere sul suo percorso e sulle future sfide che lo attendono, lo intervisto a Bolzano presso gli uffici di Mediart.
Com’è iniziato il tuo percorso da organizzatore e coordinatore di eventi musicali?
«Quand’ero molto giovane e non facevo altro che studiare pianoforte, rimasi molto sorpreso a leggere un passaggio nella biografia di Sir Georg Solti. Posto di fronte alla scelta se fare il direttore d’orchestra o guidare l’industria paterna, titubò per molto tempo perché si trattava di due lavori poi non così distanti: in entrambi ci sono elementi strategici, organizzativi e analitici. Da questo si capisce quanta creatività ci sia nel lavoro manageriale e quanti aspetti manageriali ci siano nelle professioni artistiche. Questo pensiero ha avuto una grande influenza sulle mie scelte. Dopo essermi diplomato a Bolzano e dopo gli studi a Mosca, infatti, avviai una mia attività pianistica trovandomi delle nicchie di repertori: rarità del tardo romanticismo e fin da subito musica contemporanea, perché avevo voglia e necessità di confrontarmi con chi oggi crea. Ben presto realizzai che al livello in cui mi trovavo ero troppo esposto a dinamiche che io non ritenevo interessanti, come quella degli scambi. In quel momento per un colpo di fortuna, Thomas Larcher, fondatore di Klangspuren Schwaz in Austria, mi chiese di aiutarlo e poi di prendere in mano il festival come direttore artistico, avendo avuto qualche piccola esperienza da organizzatore. Mi ero infatti già occupato di organizzare un piccolo festival nel festival durante le Settimane mahleriane di Dobbiaco e avevo curato e concepito insieme ad un musicologo Metamusik, progetto per cui abbiamo commissionato a diciassette compositori brani che poi ho suonato prima mondiale. Da Klangspuren in poi tutto è accelerato. Avevo molto meno tempo da dedicare allo strumento e così decisi di dedicarmi a quella che ritengo la forma. Se l’artista è il contenuto, infatti, il festival è la forma e poter ragionare sul come sviluppare la forma, sul come essere all’altezza del proprio presente affinché l’artista si possa esprimere in modo adeguato, lo trovai molto stimolante».
Klangspuren, Transart e Manifesta, cosa ti hanno insegnato queste tre realtà così sfaccettate nel mondo del contemporaneo?
«Ho imparato soprattutto che è molto importante lavorare a misura del territorio in cui ti muovi. È una lezione che ho appreso principalmente con Manifesta, biennale di arte contemporanea con sede ad Amsterdam che ogni due anni mette in piedi un appuntamento in una diversa realtà ospite. Quando si comincia un progetto culturale, quindi, per me è importante capire da dove parto e dove voglio portare il mio pubblico, perché ogni territorio ha delle esperienze diverse. Questo Transart lo fa molto volentieri. Le tradizioni pagane della Val Venosta, una vecchia seggiovia, un maso a Brunico, sono tutti elementi da ricodificare e far rivivere in un’altra veste, con un’altra energia, che libera il contemporaneo dal limite del nostro presente. Molto importante è anche ragionare con un approccio profondamente creativo su ciò che forma la vita culturale, come un compositore che destrutturalizza e ricompone perché ognuno possa vivere un’esperienza pur non avendo la nozione sul contenuto vero e proprio. D’altronde tutte le risorse che impegniamo, sia fondi che persone, non sarebbero giustificabili solo per chi alla fine se ne intende davvero. La stessa cosa vale per il repertorio classico, persino per un Don Giovanni o un Tristano e Isotta, che chiedono somme enormi per rimanere in vita. Non lo facciamo per quel comunque piccolo gruppo che davvero se ne intende, lo facciamo perché c’è un grande pubblico che ha già capito la forza che queste opere hanno su di loro, gli orizzonti che possono aprire».
Arriviamo quindi alla tua recente nomina come futuro sovrintendente del Klangforum Wien. Com’è avvenuta?
«C’era un rapporto che arrivava dal passato, perché li ho potuti invitare sia come Klangspuren che come Transart. Ho sempre ammirato la storia del Klangforum, che risale fino a Beat Furrer, ad oggi uno dei più grandi compositori viventi, il quale capì che c’era una nicchia da espandere, che mancava un ensemble all’altezza della musica pensata dai compositori di oggi. E se oggi uno guarda il repertorio del Klangforum, è esattamente la storia della musica del nostro presente. Quando si è saputo che stavano cercando un successore al terzo sovrintendente, io stesso ero un po’ titubante: non ero sicuro di poterlo fare, dopotutto è qualcosa di completamente diverso da quello che ho fatto fino ad adesso. Ma mi sono sempre piaciute le sfide e i diversi angoli di lettura che mi permettono di guardare il grande insieme di quello che è il contemporaneo ed il culturale. Così oggi io cambio fronte: prima avevo la libertà di decidere quale artista, quale taglio dare alla mia manifestazione, adesso sono dall’altra parte, devo persuadere direttori artistici della bontà e della forza innovativa delle proposte dell’ensemble! Ma questo mi permette di ragionare in un’altra chiave ancora, perché non mi trovo più un progetto già ambientato, come il Busoni o Transart, ma una moltitudine di dimensioni geografiche e strategiche in cui Klangforum potrebbe far sentire la propria voce. Vogliamo rimanere noi nell’ambito della cosiddetta musica nuova, che ancora oggi è una zona un po’ separata nel grande affresco della vita musicale, o cerchiamo di creare dei ponti che ci permettano di comunicare in modo più naturale che anche la musica del nostro tempo è forte tanto quanto i capolavori del passato ed è anzitutto una grande lezione di ascolto?».
Cercherai di portare anche qui un approccio transmediale?
«Di sicuro, perché oggi ci sono troppi compositori che si interessano anche delle altre discipline. Poi c’è ovviamente da capire quanto l’ensemble voglia seguire le idee altrui o esso stesso possa essere proattivo e generare dei progetti interdisciplinari. Di sicuro questo sarà un tema importante. L’altro tema sarà la questione asiatica: in molti affermano che il futuro, o gran parte del futuro, della musica classica stia in Asia. Per quanto riguarda il repertorio classico e romantico potrà essere anche vero, per quanto riguarda il contemporaneo sono più scettico, ma di sicuro un ensemble come questo si dovrà confrontare con quelle realtà e capire il prima possibile il suo ruolo in questa grande parte del mondo che sta per sviluppare le proprie forme di cura della vita musicale e delle tradizioni musicali».
Qual è, infine, il tuo approccio sul tanto discusso divario tra pubblico e musica contemporanea che tanto affligge direttori artistici e organizzatori?
«Sono un po’ scettico. Il presente musicale è troppo variegato per ridurlo ad un comune denominatore che chiamiamo musica contemporanea. Si va dal minimalismo di taglio americano o olandese al repertorio più sperimentale, con una tale varietà di possibilità sonore e sensuali che mi spingono ad oppormi all’idea che il pubblico senta lontana la musica contemporanea. Quello che succede spesso è che alcuni direttori artistici o alcuni ensemble abbiano delle posizioni estetiche troppo radicali, e ne pagano il prezzo, o che non riflettano abbastanza sul contesto. Se io presento in modo frontale, per dire, delle opere molto complesse, nel solito contesto della solita sala da concerti borghesi direttamente arrivati dall’ultimo secolo, dove il giorno prima sento il sestetto di Brahms e il giorno dopo il quartetto di Haydn, forse quello non è il contesto ideale. Ma se io ragiono su una musica contemporanea che permetta esperienze di suoni spazializzati e approcci molto meno formali e rigidi, allora credo che ci sia del pubblico, magari anche diverso. Su questo poi insisto come un mantra: uno dei più grandi muri tra il pubblico e la fruizione della musica contemporanea è il pregiudizio che si debba capire quella musica. Come dicevo prima, penso che la gran parte del pubblico che oggi segue la Società del Quartetto a Milano o il Parco della Musica a Roma non capisca nel senso analitico del termine le Sinfonie di Mahler o di Beethoven o la Sonata di Liszt: le vive. E se riusciamo a dare più voce al messaggio che la musica va innanzitutto vissuta come un’esperienza e non come una lezione di analisi, allora lì si abbatte quel muro e si apre un altro orizzonte. E chi ascolterà Gruppen di Stockhausen senza voler subito arrivare all’approccio analitico della partitura, ma vivendo l’esperienza sonora in una grande dimensione d’ascolto, secondo me farà delle esperienze davvero inaudite».