Si conclude in questi giorni la parentesi italiana del Tour 2018 di Bob Dylan and his band, inaugurata il 3 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, proseguita a Firenze, Mantova, Milano, per riprendere dopo una breve pausa a Genova e Jesolo, con gran finale il 27 aprile all’Arena di Verona.
Bob Dylan è tornato in Italia dopo tre anni, un periodo ricco di impegni e riconoscimenti, che lo ha visto ancora una volta alla ribalta della scena musicale mondiale, non soltanto grazie alla pubblicazione di tre nuovi dischi – Fallen Angels (2016), Triplicate (2017) e The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979–1981 (2017) – ma soprattutto per aver ricevuto, primo musicista nella storia, il Nobel 2016 per la letteratura; con il merito – affermava l’Accademia svedese – di aver «creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana».
Alla tappa fiorentina del 7 aprile lo ha accolto un pubblico numeroso, eterogeneo e affezionato, che si è prestato – pena il sequestro immediato – a non utilizzare telefoni, macchine fotografiche, tablet o simili; non solo, avvertiva la sicurezza all’ingresso del concerto, per evitare foto e/o riprese clandestine (peraltro sempre vietate in questo tipo di eventi), ma anche per l’esplicita richiesta dell’artista di non infrangere con le luci artificiali la scelta scenografica del buio totale in sala. L’espediente funziona e gli spettatori, di colpo liberati dall’ansia di condivisione, si ritrovano di fatto costretti a vivere a pieno la performance.
Lo spettacolo inizia puntuale e senza alcun preambolo, tanto da costringere le maschere ad accompagnare frettolosamente al loro posto i ritardatari. L’assenza di qualsiasi escalation di attesa è un primo ma significativo indizio di uno spettacolo che poco concede al rituale dello star system. Dylan sceglie di comunicare soltanto tramite le canzoni e non parla mai con il pubblico, neanche per presentare i musicisti; siede per gran parte dello spettacolo dietro il pianoforte, guadagnando il centro della scena solo in poche occasioni.
Una chitarra acustica richiama l’attenzione di un pubblico ancora distratto, introducendo il primo brano, Things Have Changed, vincitore dell’Oscar 2001 come migliore canzone e del Golden Globe 2001 come migliore canzone originale (per il film Wonder Boys di Curtis Hanson, 2000). La scaletta ripercorre la lunga carriera di Dylan, recuperando anche alcuni gioielli del suo repertorio più datato, a cominciare da Don’t Think Twice, It’s All Right, passando per Highway 61 Revisited, Desolation Row, Simple Twist of Fate, fino alle intramontabili Blowin’ in The Wind e Ballad of a Thin Man.
Le canzoni sono «vive nella terra dei vivi», spiegava Dylan nella sua Nobel Lecture, ed è probabilmente per questo che le sue sono in continua metamorfosi, mai uguali a se stesse. E infatti, queste meravigliose pagine del passato poco conservano della loro vita originale. A cambiare non è soltanto l’arrangiamento, non solo la voce dell’interprete, trasformata dal passare degli anni: le canzoni sono trasfigurate dall’interno, nei loro tratti costitutivi, tanto da risultare spesso irriconoscibili. Le linee melodiche si asciugano, si piegano su se stesse, appoggiandosi sull’andamento ritmico e assumendo piuttosto la forma di un racconto. In questo contesto, le rare tracce della loro antica veste aprono squarci nel mondo dei ricordi e sono porti sicuri in cui trovare riparo.
Che Dylan sia solito non concedere nulla alle aspettative è cosa nota, così come è ormai assodata la sua abitudine di stravolgere le sue stesse opere, rendendo di fatto impossibile un coinvolgimento attivo dell’uditorio nella performance; in altri termini, è praticamente impossibile cantare le canzoni, anche quelle talmente note da aver conquistato lo status di inni generazionali. Il pubblico è in gran parte preparato a questa sfida, e per tutto lo spettacolo resta teso a conquistare quei rari punti di appoggio ora nei testi, ora in un riff, o ancora nei suoni. Si innesca così uno strano gioco di svelamento, una particolare dinamica di tensione/rilassamento scandita dagli applausi, che puntualmente salutano il riconoscimento della canzone di turno.
Lo scenario cambia decisamente quando Dylan si appresta a interpretare quei brani del Great American Songbook tratti dai suoi ultimi dischi, incentrati appunto nella rilettura della grande canzone tradizionale americana. In Melancholy Mood (da Fallen Angels, 2016), Once Upon a Time (da Triplicate, 2017), Autumn Leaves (da Shadows in the Night, 2015) la sua voce si abbandona con maggiore compiacimento alla melodia e al canto. In questi momenti, inutile nasconderlo, si scioglie la tensione e l’ascolto su fa più rilassato. Ed è quasi solo in queste poche occasioni, guarda caso, che Bob Dylan guadagna il centro del palco.
Così come nel lontano 1965, quando al Newport Folk Festival scandalizzò il pubblico con il suono fuori contesto delle chitarre elettriche, Dylan continua a non assecondare le aspettative, proponendo sempre qualcosa di diverso dal previsto. La negazione continua di un’immagine fissa – tema centrale del biopic I’m Not There (2007), dove Dylan era interpretato da sei attori diversi – passa anche dalla negazione delle aspettative dell’ascolto e dal mancato riconoscimento di un brano rispetto alla sua esecuzione originaria.
Se visto in questi termini, il concerto può forse essere letto come una sollecitazione a rinunciare a una retorica tanto rassicurante (sia l’artista che per il pubblico) quanto avvertita come falsa, fatta di attese interminabili, di frasi di circostanza, di meccanismi celebrativi; ma è allo stesso tempo un invito a porre l’attenzione sulla canzone, in tutto il suo essere mutevole, più che sull’icona. «Things have changed» cantava Dylan all’inizio dello spettacolo, parole che suonano ora come un prologo, un’esortazione a fuggire dalla tentazione di identificazione con il passato, abbandonandosi piuttosto all’ascolto del qui e ora.