Ad aprire la stagione operistica del Comunale di Bologna è il Trovatore di Robert Wilson, nato da una collaborazione fra il teatro felsineo, il Regio di Parma e il Change Performing Arts. Nel suo insieme si tratta di uno spettacolo ben fatto che tuttavia presenta diverse pecche che ne minano non poco la resa complessiva.
Wilson cura regia, scene e luci, coadiuvato da una nutrita schiera di collaboratori (fra gli altri, la co-regista Nicola Panzer, la costumista Julia von Leliwa e la truccatrice Manu Halligan): com’era prevedibile, l’impatto visivo è strabiliante e l’utilizzo della luce e dei colori è sbalorditivo.
Nel complesso la cifra stilistica del regista – un’ostentata staticità e meccanicità dei movimenti – ben riesce ad attagliarsi a quest’opera verdiana, soprattutto in quei momenti particolarmente “statici” all’interno delle arie. Se da un lato Wilson riesce quasi sempre ad esternare e a rendere alla perfezione le situazioni drammatiche, interiori ed esteriori, tramite pochi, minimalisti e meccanici gesti attoriali, dall’altro, tuttavia, l’impostazione statica dello spettacolo talvolta nuoce gravemente alla drammaturgia musicale verdiana. A risentirne è l’attacco dei due terzetti, ma soprattutto il finale della seconda parte; una tale staticità non è consona durante l’arrivo di Manrico e i successivi scambi fra questo e Leonora, poiché in tal modo viene a vanificarsi tutto l’effetto drammatico-musicale creato da Verdi con uno dei momenti più stupefacenti della storia del teatro d’opera: la ripresa di Leonora dei versi «Sei tu dal ciel disceso / o in ciel son io con te?». Se in quel frangente non si attua una seppur minima interrelazione scenica fra Leonora e Manrico, si perde tutta l’incredibile portata emozionale di quel miracoloso attimo di sospensione spazio-temporale.
Per quanto concerne le scelte scenografiche, Wilson opta per uno spazio neutro, chiuso da tre pareti, come fosse una scatola; unica perturbazione scenica è l’utilizzo di tre proiezioni sul fondo: le prime due – la ricostruzione di un’affollata piazza ottocentesca, la veduta di un mare in tempesta su cui si libra lento un gabbiano – sono alquanto superflue; azzeccata risulta invece la terza, che mostra un soffice tappeto di nubi, in concomitanza del “cielo” a cui fa riferimento il finale del secondo atto. Analoga situazione si ripropone con i figuranti inseriti da Wilson: se le tre ballerine che danzano attorno alla fontana paiono degli additivi non necessari, l’idea della vecchia con la carrozzina si dimostra ben più calzante, nel momento in cui si pone al centro dell’attenzione insieme ad Azucena mentre questa canta il suo racconto «Condotta ell’era in ceppi», incentrato sul rapporto madri-figli; egualmente superflua ma di splendida presenza scenica è la figura del vecchio, ulteriore esemplare di questi fantasmi silenti che personificano il tema del “ricordo” e che difatti si trovano concentrati perlopiù durante le scene narrative dell’opera. Anche grazie a questi personaggi Wilson perviene talvolta ad una vera e propria “poesia della visione”, in cui i gesti assumono vita propria divenendo un linguaggio artistico a sé stante, senza essere necessariamente dotati di logica o razionalità, creando così un lirismo dei movimenti che si manifesta in momenti quasi onirici.
Altra situazione “chiaroscurale” si ravvisa appena prima del terzo atto: essendo l’allestimento bolognese una riproposizione di quello del Trouvère dato a Parma lo scorso settembre, Wilson decide deliberatamente di mantenere la scena di “danza” francese, che da lui era stata convertita in un allenamento-incontro di pugilato con tanto di boxeur professionisti e non, in cui ricompare perfino la vecchina con dei bei guantoni rossi; il tutto però viene proposto a Bologna spogliato totalmente della musica da ballo: si è assistito pertanto a dieci minuti buoni di silenzio animati dal viavai dei figuranti in scena, accompagnato soltanto dai colpi ripetuti di un suono secco che serviva per dare ritmo agli attori. Se indubbia è l’ottima qualità scenica di tale momento, rimane però da chiedersi quale sia la sua reale funzione.
Attenta alle dinamiche e agli impasti timbrici è stata la direzione musicale di Pinchas Steinberg, sebbene avrebbe potuto sottolineare maggiormente alcuni momenti significativi, come ad esempio il prodigioso flusso sonoro che chiude il finale secondo; peccato poi per i tagli a danno della partitura, privata della riesposizione delle cabalette in diverse arie principali.
Riccardo Massi (Manrico) si presenta con voce e presenza scenica ottime, anche se talvolta è risultato un po’ tremolante nell’emissione; ottima prova canora e attoriale anche per il Conte di Luna di Vasily Ladyuk (che si è trovato a sostituire all’ultimo momento Dario Solari, assente a causa di un’indisposizione); molto bene pure Cristiano Olivieri nei ruoli di Ruiz e di un messo, mentre Marco Spotti (Ferrando) mostra un po’ di piattezza nelle dinamiche ed un’esposizione non limpida e non sempre in accordo con l’orchestra, seppur dotato di un bel timbro gradevole.
Ancor meglio hanno fatto le donne: Nino Surguladze veste i panni di un’Azucena dotata di un bellissimo timbro, bruno e scuro, e di un’emissione precisa e potente; Guanqun Yu è una Leonora strepitosa: limpida, cristallina, pura e perfetta. Bene pure Tonia Langella (Ines) e Nicolò Donini (un vecchio zingaro). In gran forma si presentano anche i coristi, preparati dal maestro Alberto Malazzi che da questo mese è il nuovo direttore del Coro del Comunale di Bologna.
Il pubblico sembra apprezzare questo primo spettacolo della stagione, con applausi per tutti, calorosi particolarmente per il soprano cinese.
Immagine di copertina Ph. Lucie Jansch