Anoushka Shankar a Ravenna per l’unica tappa italiana della sua tournée

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Sembrerebbe che una delle tematiche più care ad Anoushka Shankar sia l’attraversamento dei confini. In primo luogo quelli musicali come in Traveller (2011) dove le sonorità ispaniche del flamenco incontrano quelle indiane del suo sitar, in maniera tanto insospettabile quanto piacevole. I confini artistici: Anoushka si è ormai emancipata dall’ingombrante ombra del padre Ravi, ne ha raccolto l’eredità e la innova con instancabile passione. E infine i confini geografici: da donna nata e cresciuta tra India, Europa e America conosce bene le due facce della globalizzazione – l’arricchimento culturale e la povertà diffusa – ed è consapevole delle sfide che rappresentano.

Nel suo ultimo disco, Land of Gold (2016), guarda proprio a quest’ultima tipologia di confine in un concept album che racconta l’odissea dei profughi nella speranza di poter trovare un luogo di pace e serenità che si possa chiamare casa, per sé e per i propri figli. Vero leitmotiv tematico del disco è infatti quello dei profughi bambini: la famosa fotografia del piccolo naufrago Alan Kurdî, recuperato senza vita sulla spiaggia di Bodrum (Turchia), è stato il fattore scatenante di questa opera.

Domenica 9 luglio al teatro Diego Fabbri di Forlì, nell’ambito di Ravenna Festival – unica tappa italiana per la tournée della musicista indiana – emergono tutti questi elementi e anche qualcosa di più. Lungi dall’essere “semplicemente” un disco di impegno sociale, in Land of Gold confluiscono tutte le particolarità già espresse dalla sua produzione precedente; una summa della carriera della musicista fino a oggi, in un lavoro musicalmente fresco e solo con troppa approssimazione riconducibile alla categoria World Music.

Un’operazione il cui merito è anche degli ottimi musicisti con i quali la sitarista si accompagna, tutti provenienti da esperienze diverse, che danno origine a un ottimo mix di musica tradizionale indiana, jazz, minimalismo ed elettronica: Manu Delago alla batteria e all’hang (un idiofono di metallo a percussione, ideato in Svizzera nei primi anni 2000), Tom Farmer al contrabbasso, pianoforte e live electronics e Sanjeev Shankar allo shehnai (uno strumento indiano simile all’oboe, dal timbro più aspro). Il quartetto presenta il disco per intero, suddividendo i dieci brani che lo compongono in tre lunghe suite – un’operazione quasi da progressive rock – inframmezzate dai lunghi applausi del pubblico.

Il primo trittico, Remain the Sea/Boat to Nowhere/Last Chance, sembra quasi costruito sulle sezioni della musica indiana tradizionale: dall’iniziale introduzione del sitar (alap, un tempo rubato sulle note più gravi dello strumento, in cui viene esposto il rāga) si passa a un secondo movimento (jor, con un ritmo costante e crescendo gradualmente in velocità e in altezza delle note) fino all’entrata dell’elettronica in stile techno music e del contrabbasso jazz nell’ultima sezione (gat, il momento virtuosistico del sitar, su un ritmo molto veloce). Mentre negli altri trittici prevalgono sonorità più minimaliste, spesso con il live electronics a fare da sfondo per gli interventi solisti di sitar e shehnai.

Al proposito è notevole la collaborazione tra questi due strumenti, in una sorta di incontro tra rock e musica classica indostana: quest’ultima è esclusivamente monodica (oppure all’unisono; in ogni caso nessuna forma di contrappunto è ammessa) e gli assolo di Sanjeev si snodano spesso sui riff del sitar di Anoushka.

Il vero co-protagonista è soprattutto Manu Delago nella doppia veste di co-autore delle canzoni e di virtuoso dell’hang (e, ad oggi, l’unico di questo poliedrico strumento, probabilmente). Nei suoi duetti con Anoushka Shankar, il musicista austriaco sfrutta la grande versatilità timbrica dell’hang e la sua abilità nel costruire complessi cicli ritmici per imitare le tabla; a ciò si aggiunga la straordinaria capacità innata dello strumento di esaltare gli armonici, caratteristica che lo accomuna proprio al sitar.

Nel complesso, un’esibizione che rappresenta con passione le molteplici anime interconnesse del disco e della musicista. Nemmeno le difficoltà ambientali che hanno troppe volte costretto Anoushka Shankar ad accordare il suo strumento hanno interrotto il flusso costante della musica: si sa che il sitar è molto sensibile al clima e la sua accordatura è operazione molto delicata. Ma il suono è talmente affascinante che anche questa banale azione si risolve spesso nel piacere dell’ascolto.

Foto di copertina: Anoushka Shankar © Harper Smith

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